lunedì 7 agosto 2017

E IO PAGO! Storia di vecchi, autobus e fascismo



Sono le sette e ho già corso per più di un chilometro, non sono abitato a prendere i mezzi pubblici, ho aspettato la metropolitana sbagliata, poi era troppo tardi e me la sono dovuta fare a piedi, di corsa, tra i parchi che dividono la stazione di San Leonardo dall’ex capolinea della metropolitana a Molino Dorino.
Arrivo che l’autobus è quasi in partenza, è il sette di agosto e ci sono solo quattro persone ad aspettare, i residuati bellici dell’agosto cittadino, io, che finisco il turno in comunità e comincio il mio lavoro giornaliero a correggere bozze, aggiornare pagine, cercare contatti per i progetti; una ragazza dai tratti sudamericani, due uomini di colore e un tizio egiziano che potrebbe avere venticinque come cinquant’anni. Vanno tutti a lavoro, lo capisci subito dai sacchetti di carta che, chiaramente, contengono il pranzo, dagli scarponi da lavoro, di quelli che ti cuociono il piede pure a gennaio, figurati ad agosto. Lo capisci dal colore del sonno. Perché la stanchezza ha un colore, anzi una gamma di colori, dal grigio delle pelle, al viola delle occhiaie. Chi nella vita non ha fatto mai un turno di notte non lo può capire. Per me è normale.
Io vado a lavorare quando arriva la notte e per strada, sui mezzi, incontro la gente che torna stanca da lavoro, quelli che hanno fatto lo straordinario in ufficio, con le giacche un po’ spiegazzate, i colletti della camicia ingialliti, l’odore di essere umano che oltrepassa il muro della seconda spruzzata di deodorante che ormai ha smesso di dare il proprio contributo alla tua rispettabilità da troppo tempo.
E ritorno a casa quando la gente va a lavorare, con un’altra stanchezza addosso, quella che ti si è attaccata come una piattola appena hai messo i piedi fuori dal letto e che non vuole andare via. Quella che, come certi batteri sono negli anni diventati resistenti all’antibiotico, è diventata resistente al primo caffè della giornata, e a tu sai che presto resisterà anche alla seconda dose.
Salgo sull’autobus in mezzo a tutta questa stanchezza cercando di ignorare, già che ci sono, anche la mia. È arrivato il momento di spegnere il me stesso educatore e di fare uscire il supereroe (o per meglio dire, il mostro) che è in me. Educatore off, editore on.
Nella mia schizofrenia vado avanti così da anni.
Estraggo dalla borsa il manoscritto del giorno, niente di memorabile ma almeno ha il pregio di essere breve. Le opere prime della maggioranza di quelli che mi scrivono sono lunghissime, gonfie di inutili descrizioni, di spiegazioni del tutto inutili su cose che non hanno nessuna necessità di essere spiegate. Ultimamente c’è pure chi fa il copia incolla da wikipedia: uno strazio.
Prendo una penna e comincio a buttare qualche notazione qua e là. Non è bruttissimo, ci si deve lavorare parecchio ma forse può uscirne qualcosa.
Non mi accorgo della signora salita alla prima fermata: “Posso sedermi qui?” chiede indicando il posto dove ho lasciato la mia borsa. C’è un autobus completamente vuoto ma lei ha deciso di sedersi a fianco a me, rifletto: credo sia colpa di Sara, se non mi avesse convinto a portare sempre un deodorante al lavoro non sarebbe mai successo.
Annuisco con un sorriso e sposto la borsa cercando di sembrare molto assorto e molto professionale. So già come andrà a finire, spero solo che l’anziana si faccia furoviare dalla mi faccia corrucciata e dallo sguardo attento. So già che non sarà così e infatti puntualmente accade: “Sa, mi sono seduta vicino a lei perché si vede subito che lei è italiano”
Adesso potrei cercare di farla fuggire provando il mio falso accento albanese appreso in anni e anni di comunità ma so che ormai sono fottuto, la bozza che ho davanti e l’agenda aperta sulle gambe mi identificano subito.
“Legge?” mi domanda madame de Lapalisse dopo essersi sistemata un po’.
“Ci provo, in realtà è lavoro urgente, una cosa che devo consegnare per forza tra poche ore” hai capito l’antifona dolce signora?
No, non la vuol capire: “Anche a me piaceva molto leggere quando ero giovane, poi con l’età e la televisione, sa come si dice? Troppe cose da fare”
Annuisco di nuovo. Si capisco, come capisco che tra le mille cose che riempiono la vorticosa vita del pensionato medio ci deve essere anche triturare lo scroto di uno che si maledice per non aver ancora portato avanti quel progetto per confezionare magliette con la scritta NON HO VOGLIA DI CONOSCERTI, LEVATI DAI COGLIONI.
“Menomale che ho trovato lei stamattina sull’autobus, sa, io non lo prendo mai, mio marito dice che è pericoloso ma devo andare a Legnano a trovare una mia amica che l’hanno operata all’anca e sono stata costretta” ma nulla ti costringe a parlare con me, penso mentre cerco di pensare all’amica così desiderosa di farsi affogare di chiacchiere. Io sono l’antipasto, penso, sono il riscaldamento prima del vero incontro.
“Vede, siamo gli unici italiani, una donna anziana come fa a sentirsi al sicuro?”
Desisto, magari se provo a farle capire che non sono nemmeno un po’ d’accordo con lei mi lascia perdere: “Guardi, onestamente qui io vedo solo persone che vanno a lavorare”
“Ma no guardi, lei si deve informare, guardi il telegiornale, non lo sa che sugli autobus ormai è tutto un ammazzare persone, ormai un italiano rischia la vita appena mette il naso fuori di casa” Tu sicuramente, penso mentre vedo la vecchia scuotere la testa sconsolata.
“No, mi sono perso la notizia, io non ho la TV a casa”
“Come no” La vecchia si fa incredula, per la prima volta si sta facendo delle domande: forse si è seduta vicino a un pazzo, italiano ma pazzo, saranno anche una minima parte ma qualcuno ce ne sarà. Ora forse la pianta, penso. E invece no. Sapere che non ho la TV le ha fatto credere di essere salita si un paio di gradini sulla scala evolutiva. Ora si sente in dovere di spiegarmi cosa accade nel mondo. È ovvio, io sono un poveraccio. Non so nulla di quanto accade in questo Paese e lei si sente in dovere di mettermi in guardia, prima che io prenda un autobus di notte senza scorta.
“Ci sono i profughi, sa? Sono in giro per Milano tutto il giorno a fare niente perché così prendono 50 euro al giorno, e poi vanno in giro nudi e violentano le ragazze nei parchi, adesso non ci va più nessuno al parco” valuto la possibilità di metterla al corrente del fatto che i parchi, soprattutto con questo caldo, sono pieni da scoppiare ma credo che sia inutile e poi, ammetto, comincio a prenderci gusto in questo delirio.
“Sa che non avevo mai sentito parlare di questi profughi, mi spieghi, chi sarebbero?”
La vecchia si impettisce, ha trovato un povero ignorante: “Sono della gente che viene dall’Africa perché lì non hanno voglia di lavorare, ma al loro paese il loro governo se non hai voglia di lavorare non ti dà i soldi, invece in Italia il Renzi gli ha detto di venire e gli dà i soldi e loro vengono”
Strabuzzo, la signora ha appena citato Bello Figo senza saperlo e insiste: “Vanno in giro con i telefoni nuovi come quello che ha lì lei, e noi non abbiamo i soldi per fare la spesa, e poi vanno anche insieme alle ragazze italiane e ci fanno i figli”
No, ho sbagliato, questa vecchia non cita Bello Figo, gli scrive i pezzi: “Ma non capisco, se vanno con le ragazze italiane mica le rapiscono in casa, vorrà dire che loro sono contente” ribatto io con la faccia di uno che è sceso adesso dalla Luna.
“No, guardi, su quello credo che è per la droga”
“Domando nuovamente scusa ma non capisco” lei mi guarda confusa, Diavolo la sto perdendo, se le do un’altra dose di logica potrebbe morire qui sul posto, meglio farla scendere un po’.
“Ma quanti sono questi profughi in Italia?” Domando
“Non lo so, ma dicono che ne arrivano diecimila al giorno” risponde lei
“Tutti i giorni?”
Lei annuisce: “Qualche volta anche di più”
“Bhe certo, poi se c’è mare grosso anche qualcuno in meno”
“Sì certo, è una probabilità” credo volesse dire che è una media ma lascio perdere
“Quindi diecimila al giorno tutti i giorni? E sono tutti in Italia?”
“Certo”
“Tremilioniseicentocinquantamila persone all’anno che arrivano in Italia e ci restano a spese dello Stato?” mi mordo la lingua, altra botta di logica, ora sviene.
E invece no, annuisce decisa, mi guarda e mi dice: “A volte anche quattro milioni”
Ora sono io che sento che la testa mi gira, guardo fuori dal finestrino, abbiamo superato Rho, tra pochi minuti sarà finita, ora mi viene la scimmia della matematica, lo so che se mi sale è la fine ma non ce la faccio a esimermi: “Ha detto che prendono 50 euro al giorno?”
“Si”
“In tre milioni e seicentocinquanta mila?”
“Si”
“E da quanti anni?”
“Da quando c’è Renzi, circa dieci anni” Accidenti, vola il tempo.
“E sono tutti qui?”
“Certo, guardi, deve comprare una televisione così lo vede anche lei”
“Cioè in Italia oltre ai sessanta milioni di Italiani ci sono trentacinque milioni di Profughi che prendono 50 euro al giorno?”
Lei seria e impettita: “Si”
Mi alzo, sta per arrivare la mia fermata, guardo i miei poveri compagni di viaggio che non hanno sentito nulla della conversazione precedente e stanno andando al lavoro cercando di togliersi di dosso il colore della notte e della stanchezza.
Li guardo e penso che sullo stesso autobus c’è una signora che ora, ha un po’ più di paura perché l’unico italiano sta scendendo e che pensa che lo stato stia regalando a ciascuno di loro diciotto mila euro l’anno, mentre loro vanno a lavoro come dei fessi il sette di agosto e si alzano la mattina alle cinque.
Prendo il cellulare e apro la calcolatrice, trenta milioni e mezzo di profughi per diciassettemila ottocento all’anno per dieci anni. Faccio il conto ma la calcolatrice del telefono non ce la fa, troppi zeri: 6,497E11. Lo sviluppo qui 6497000000000. Seimilaquattrocentonovatasette miliardi di euro l’anno, pari al debito pubblico di Italia, Germani, Grecia, Portogallo e Lussemburgo.
Ecco come si crea un mostro, la sintesi tra ignoranza e totale travisamento dei numeri.
Scendo all’aria pura del mio piccolo paese, tiro un sospiro di sollievo mentre mi auguro che la vecchia incontri il senegalese della sua vita tra la torre di Nerviano e la statua di Alberto da Giussano a Legnano.
Mentre cammino per la città desertificata dalle partenze dei miei “poveri” concittadini mi torna in mente il bel problemino che veniva consegnato ai bambini tedeschi durante il periodo nazista
Il mantenimento di un ammalato mentale costa circa 4 marchi al giorno, quello di uno storpio 5,5 marchi, quello di un criminale 3,50. Molti dipendenti statali ricevono solo 4 marchi al giorno, gli impiegati appena 3,5, i lavoratori manuali nemmeno 2 marchi al giorno. Illustrate queste cifre con un diagramma. Secondo stime prudenti sono 300mila i malati mentali, epilettici, ecc. di cui si prende cura lo Stato. Quanto costano in tutto queste persone a 4 marchi a testa? Quanti prestiti matrimoniali a 1000 marchi l’uno potrebbero venir concessi sfruttando questo denaro?".
Ma noi rispetto ai bambini nazisti abbiamo un vantaggio. La signora probabilmente non saprebbe sviluppare questi calcoli.


martedì 28 febbraio 2017

L’ESTETICA DEL MARTIRIO E L’IPOCRISIA CATTOLICA




Questo è un blog di finzione letteraria, lo metto in premessa perché chiunque scorra altri post non vi troverà altro che brevi racconti grotteschi e giochi d’invenzione e, lo dico chiaramente, non ci troverà mai altro. Fatta questa dovuta premessa al lettore dico che ci sono argomenti del vivere quotidiano che non si possono incasellare all’interno della semplice etichetta di “riflessione sul fatto di cronaca”, di “commento” o di articolo di fondo.
Scrivere è una esigenza dell’uomo, per alcuni, come il sottoscritto, una malattia che diventa negli anni una professione. Scrivere è cercare di scardinare le regole dell’evidente per arrivare al cuore delle vite dell’uomo. In Italia, in questi anni bui e meschini, scrivere è un’esigenza intellettuale.
Stamani mi è capitato di avere per le mani una copia di Avvenire, il giornale della CEI, che, prevedibilmente, si occupa della morte, in una clinica Svizzera, di Fabio Antoniani.
Nella sua versione on line compare un commento in cui si domanda alla stampa a gran voce di “Fare Silenzio” per rispettare la morte del giovane trentanovenne. Peccato sia stato proprio lui a cercare di dare visibilità al suo gesto in funzione politica. Fare silenzio per non confondere l’uomo della strada, la pecorella da pascere al gregge: “solo chiasso, volto a frastornare e suggestionare l’uomo della strada, che ha l’impressione di trovarsi di fronte a una violenza inaudita, quando invece si tratta di una questione oggettivamente problematica, da affrontare senza preventive demonizzazioni di chi non la pensa come noi e avendo ben chiaro che è la vita il valore da affermare e da difendere e non la morte” https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/suicidio-assistito-il-rispetto-dovuto.

Molte cose stonano nel fiume di commenti ipocritamente “pro vita” come amano essere definiti i fautori dell’idea che l’uomo non sia padrone di sé o e meglio che l’uomo non debba essere padrone di sé dal concepimento alla nascita e negli ultimi istanti del proprio vivere.
Le posizioni di questi commentatori sono molteplici e multiformi c’è chi arriva a supporre che “Dj Fabo” volesse vivere, poi ha incontrato Marco Cappato e ha deciso di morire, quindi colpa di Cappato che è una specie di figura infera che toglie all’uomo i motivi del vivere. Qualcuno va ad intervistare il fisiatra che ha avuto in cura il ragazzo che dice che la speranza dell’attesa di un nipotino o di un qualunque evento benefico della vita della famiglia propone orizzonti di speranza al malato che, benché inchiodato sul letto, con un tubo nella gola e un altro nello stomaco, incapace di parlare, vedere, respirare autonomamente, almeno nella sua testa, vive nell’attesa.
Chi ancora, in una specie di gioco da rabdomante della morte va a scovare il ragazzo che, nelle stesse condizioni è contento della sua condizione ed è pieno di speranza, salvo poi degradare lo stesso a confuso essere privo di speranza nel momento in cui dovesse cambiare idea.
Sono tutte posizioni parziali, odiose e prive di quella tanto sbandierata carità e disponibilità al perdono con cui la maggior parte di coloro che le scrivono si sciacquano la bocca, tanto più odiose nel momento in cui sono accompagnate dalla famosa frase d’apertura: “Massimo rispetto per la morte di Fabio Antoniani ma…”

Tuttavia non è nemmeno questo quello che mi ha fatto scattare la molla per la quale ho deciso di accantonare tutto quello che stavo facendo per mettermi a scrivere un pezzo, nel Blog sbagliato e, probabilmente al momento sbagliato.
La cosa che maggiormente mi ha irritato è la lettura di una considerazione a margine che traspare dalle righe del giornale cattolico e che, di per se, irrita sempre l’establishment vaticano quando queste cose accadono. Il fatto che il signor Antoniani, come prima di lui Piergiorgio Welbi, Beppino Englaro e, più recentemente il signor Dino Bettamin abbiamo usato il loro corpo per dimostrare un concetto politico. 

E’ impensabile, per questi signori, che si debba fare del proprio corpo un’icona del diritto all’autodeterminazione della vita. In parole semplici: Vuoi morire? Bene, ma fallo da solo e in silenzio senza andare a muovere le altrui coscienze. Fallo senza alzare polveroni, che non serve, perché anche da morto voglio decidere io come devi usare la tua persona, quando devi usarla e con quanto rumore devi andartene. Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II in mondovisione, tu per piacere, in silenzio.
Qui si entra in un campo dell’estetica che trovo davvero ripugnante. Senza cercare di fare il teologo d’accatto trovo questo modello di pensiero rivoltante gretto e, addirittura criminale (per un motivo che dirò più avanti). Andiamo con ordine.

La chiesa cattolica e, più in generale il cristianesimo ha fatto del corpo e della sua sofferenza un brand pubblicitario che, per dirla come si direbbe in un ufficio marketing, tira di brutto da secoli, il marchio vincente. Non so se davvero sia mai esistito Gesù Cristo, sono certo che non è esistito nella forma sincretica e agiografica con cui la teologia lo ha dipinto negli anni. Quello di cui vado certo è che dello scempio fatto al suo corpo, della Passione e della Morte, la chiesa ha fatto un modello. Ancora oggi circola amenamente, come libretto per la formazione delle gioventù cristiane più radicali, un testo medioevale dal nome “l’Imitazione di Cristo” che è solo e soltanto un grande vademecum su come soffrire e morire nella migliore adesione al modello del cristo e dei martiri della chiesa.


Le chiese grondano di esempi più o meno ben riusciti di sofferenze inaudite. Individui che volontariamente si fanno torturare e muoiono per la glorificazione del cristo stesso. La morte autoinflitta per maggior gloria del cristo non era nemmeno una scelta possibile tra le molte praticabili ma, soprattutto nei primi secoli, l’unica accettabile se è vero che molti tra i padri della chiesa si domandavano come fare con coloro che, davanti alla scelta di morire o di abiurare la propria fede, avevano scelto la seconda. Costoro, che avevano deciso di salvare la santità delle propria vita piuttosto che concedersi alle amorevoli cure del boia, potevano tornare nella comunità e dirsi ancora cristiani? Inizialmente pare proprio che la risposta fosse no, salvo poi ammorbidire la propria posizione quando a scegliere per la vita cominciarono ad essere vescovi e prelati più alti con la scusa che la loro missione terrena ancora non era finita.
il martirio di san Sebastiano
L’estetica della morte violenta, del rifiuto alla vita, della scelta nella testimonianza fino in fondo, ha creato una vera e propria letteratura che passa sotto il nome di martirologio.
Il martire, che in greco vuol dire semplicemente il testimone, era e ancora è il vero cristiano.
Non sono cose di duemila anni fa, la chiesa sa sempre come rinverdire il proprio parco macchine con novelli testimoni che preferiscono la morte all’abiura di sé, dai missionari che si fanno uccidere in terre lontane alle figure come Santa Maria Goretti che preferisce la morte al cedere la propria castità il calendario si riempie e si gonfia.
Il corpo massacrato, il corpo afflitto, il corpo sanguinante, il corpo straziato e una costante iconografica, una figura onnipresente dell’esegesi religiosa del monoteismo (vale anche per altre religioni, ci mancherebbe, ce lo insegna il terrorismo di matrice islamica). Con l’avvento della comunicazione di massa una figura sopra tutte è diventata il segno di questo mercimonio della sofferenza a reti unificate per maggior gloria della santificazione: Giovanni Paolo II. Il corpo del vecchio papa veniva piacevolmente mostrato in tutte le sue esibizioni più personali di dolore, in tutte le sue mancanze date dalla malattia e dalla sofferenza. Anni fa una vecchia signora di mia conoscenza, molto cattolica, mi disse: “Peccato che non abbia anche le stigmate sarebbe stato così bello”
un esempio plastico di silenzio dignitoso di fronte alla morte   


La sofferenza, la morte, il dolore, sono modelli che attivano immediatamente la nostra curiosità umana, qualcosa di istintivo che risiede nel profondo delle nostre pulsioni ancestrali. È lo stesso meccanismo che ci fa rallentare in autostrada quando vediamo un’auto distrutta nell’altra corsia. Gli agiografi lo sanno e usano questi modelli a piene mani, ma il gioco funziona solo e soltanto se è la sola chiesa a usarli. Se lo usa pure qualcun altro, con fini diversi, allora no, allora non va bene, allora bisogna immediatamente sanzionare l’atto perché: “Pare assurdo e incredibile che si possa usare il proprio corpo come veicolo di una scelta politica, come esibizione al fine della ricerca di un cambiamento della legge”
Anche il signor Antoniani, e il signor Welbi e tutti gli altri prima durante e dopo sono dei martiri, dei testimoni, e la chiesa lo sa, ed è questo che non le va bene.
Il problema non sta nell’eutanasia, il problema non sta nell’aborto, il problema non sta in quello che diavolo fai del tuo corpo. L’importante, il VERAMENTE importante, è che tu lo faccia in silenzio e senza rompere le scatole al manovratore.
il martirio di Santa Maria Goretti
Vuoi morire? Senza fare tanto casino ti puoi mettere d’accordo in ospedale con un medico caritatevole e compiacente che non mancherà di applicare certi protocolli e scriverà sulla cartella clinica “arresto respiratorio”; “blocco renale” o qualunque altro dei possibili motivi che possono portare un uomo inchiodato ad un letto a morire. Il problema politico della gestione della vita e della morte è ben altra cosa. 

Sono decenni che la chiesa ha perso ogni dignità e possibilità per imporre il suo volere alle masse. Quello che non può tollerare è di non aver più nemmeno il diritto di veto sulle scelte politiche. Questo è il fatto davvero criminale. Qui siamo al paradosso. Un’organizzazione chiusa e ristretta (chi può dire di seguire i dettami della chiesa, chi non è in un certo qual modo nel mondo moderno in disaccordo sui precetti? Quanti sono i Veri credenti? Uno su un milione? E quanti di questi veri credenti nella vita fanno i medici obiettori uno su un miliardo?) che impone a una massa di persone che non abbracciano per nulla le loro idee le proprie regole di comportamento, regole che alla bisogna si possono aggirare, di nascosto, con calma e strategia.
Dico e scrivo da anni che mi piacerebbe poter vivere in un paese dove una persona come me possa avere la possibilità di essere Atea senza il peso di dover essere anche “anticlericale”. L’anticlericalismo mi pesa, lo trovo noioso, triviale e, a volte, inutilmente violento ma sono costretto a essere anticlericale dai fatti.
La chiesa è un gruppo ristretto, faccia rispettare i suoi precetti ai suoi accoliti: nessuno vuole obbligare una ragazza cattolica ad abortire un feto gravemente malformato, nessuno vuole obbligare un omosessuale cattolico a sposarsi e ad adottare figli, nessuno vuole obbligare un cattolico che si scoprisse malato di SLA a ricorrere a procedure di suicidio assistito.
Tutte queste persone hanno un’idea di vita che accoglie la sofferenza come parte integrante del Sé io personalmente non ci credo e non voglio che qualcuno mi imponga dei modelli di pensiero.

Il giorno in cui non sarò più libero di andare in montagna e di godere di colori della natura, il giorno che il mio stato psicofisico mi dovesse impedire di sedermi a scrivere un racconto, un romanza o questo brutto articoletto malfatto non avrò più interesse alla vita. Il giorno in cui percepirò negli occhi della donna che amo la pietà piuttosto che l’amore o nei figli che avrò la fatica a sopportare la mia sofferenza preferirò andarmene. Non credo in un aldilà e penso che quello che è l’uomo si faccia tutto in questa vita, che quello che si lascia in questo mondo sia la sola cosa che conti. Non credo nemmeno in un Dio ma se ci fosse e scoprissi che per lui quello che conta è la quantità di sofferenza che posso offrirgli non vorrei comunque avere a che fare con lui: di sadici è già pieno l’aldiquà non abbiamo bisogno anche di un sadico eterno e onnipotente.
    
L’estetica della morte, proposta dai cristiani è un trucco e come trucco va disvelato. L’estetica della sofferenza serve solo a far sì che il ricco non sia disturbato dal povero, il potente dall’impotente. L’etica della chiesa è un’etica di signori e regnanti e di pecore che vengono condotte dal pastore. Quest’etica della morte e della subornazione al potere non fa per me, non l’accetto come uomo e meno ancora l’accetto quando diventa causa della sofferenza dell’altro vicino a me, costretto come un servo al volere di un padrone che non si è cercato.