martedì 28 febbraio 2017

L’ESTETICA DEL MARTIRIO E L’IPOCRISIA CATTOLICA




Questo è un blog di finzione letteraria, lo metto in premessa perché chiunque scorra altri post non vi troverà altro che brevi racconti grotteschi e giochi d’invenzione e, lo dico chiaramente, non ci troverà mai altro. Fatta questa dovuta premessa al lettore dico che ci sono argomenti del vivere quotidiano che non si possono incasellare all’interno della semplice etichetta di “riflessione sul fatto di cronaca”, di “commento” o di articolo di fondo.
Scrivere è una esigenza dell’uomo, per alcuni, come il sottoscritto, una malattia che diventa negli anni una professione. Scrivere è cercare di scardinare le regole dell’evidente per arrivare al cuore delle vite dell’uomo. In Italia, in questi anni bui e meschini, scrivere è un’esigenza intellettuale.
Stamani mi è capitato di avere per le mani una copia di Avvenire, il giornale della CEI, che, prevedibilmente, si occupa della morte, in una clinica Svizzera, di Fabio Antoniani.
Nella sua versione on line compare un commento in cui si domanda alla stampa a gran voce di “Fare Silenzio” per rispettare la morte del giovane trentanovenne. Peccato sia stato proprio lui a cercare di dare visibilità al suo gesto in funzione politica. Fare silenzio per non confondere l’uomo della strada, la pecorella da pascere al gregge: “solo chiasso, volto a frastornare e suggestionare l’uomo della strada, che ha l’impressione di trovarsi di fronte a una violenza inaudita, quando invece si tratta di una questione oggettivamente problematica, da affrontare senza preventive demonizzazioni di chi non la pensa come noi e avendo ben chiaro che è la vita il valore da affermare e da difendere e non la morte” https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/suicidio-assistito-il-rispetto-dovuto.

Molte cose stonano nel fiume di commenti ipocritamente “pro vita” come amano essere definiti i fautori dell’idea che l’uomo non sia padrone di sé o e meglio che l’uomo non debba essere padrone di sé dal concepimento alla nascita e negli ultimi istanti del proprio vivere.
Le posizioni di questi commentatori sono molteplici e multiformi c’è chi arriva a supporre che “Dj Fabo” volesse vivere, poi ha incontrato Marco Cappato e ha deciso di morire, quindi colpa di Cappato che è una specie di figura infera che toglie all’uomo i motivi del vivere. Qualcuno va ad intervistare il fisiatra che ha avuto in cura il ragazzo che dice che la speranza dell’attesa di un nipotino o di un qualunque evento benefico della vita della famiglia propone orizzonti di speranza al malato che, benché inchiodato sul letto, con un tubo nella gola e un altro nello stomaco, incapace di parlare, vedere, respirare autonomamente, almeno nella sua testa, vive nell’attesa.
Chi ancora, in una specie di gioco da rabdomante della morte va a scovare il ragazzo che, nelle stesse condizioni è contento della sua condizione ed è pieno di speranza, salvo poi degradare lo stesso a confuso essere privo di speranza nel momento in cui dovesse cambiare idea.
Sono tutte posizioni parziali, odiose e prive di quella tanto sbandierata carità e disponibilità al perdono con cui la maggior parte di coloro che le scrivono si sciacquano la bocca, tanto più odiose nel momento in cui sono accompagnate dalla famosa frase d’apertura: “Massimo rispetto per la morte di Fabio Antoniani ma…”

Tuttavia non è nemmeno questo quello che mi ha fatto scattare la molla per la quale ho deciso di accantonare tutto quello che stavo facendo per mettermi a scrivere un pezzo, nel Blog sbagliato e, probabilmente al momento sbagliato.
La cosa che maggiormente mi ha irritato è la lettura di una considerazione a margine che traspare dalle righe del giornale cattolico e che, di per se, irrita sempre l’establishment vaticano quando queste cose accadono. Il fatto che il signor Antoniani, come prima di lui Piergiorgio Welbi, Beppino Englaro e, più recentemente il signor Dino Bettamin abbiamo usato il loro corpo per dimostrare un concetto politico. 

E’ impensabile, per questi signori, che si debba fare del proprio corpo un’icona del diritto all’autodeterminazione della vita. In parole semplici: Vuoi morire? Bene, ma fallo da solo e in silenzio senza andare a muovere le altrui coscienze. Fallo senza alzare polveroni, che non serve, perché anche da morto voglio decidere io come devi usare la tua persona, quando devi usarla e con quanto rumore devi andartene. Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II in mondovisione, tu per piacere, in silenzio.
Qui si entra in un campo dell’estetica che trovo davvero ripugnante. Senza cercare di fare il teologo d’accatto trovo questo modello di pensiero rivoltante gretto e, addirittura criminale (per un motivo che dirò più avanti). Andiamo con ordine.

La chiesa cattolica e, più in generale il cristianesimo ha fatto del corpo e della sua sofferenza un brand pubblicitario che, per dirla come si direbbe in un ufficio marketing, tira di brutto da secoli, il marchio vincente. Non so se davvero sia mai esistito Gesù Cristo, sono certo che non è esistito nella forma sincretica e agiografica con cui la teologia lo ha dipinto negli anni. Quello di cui vado certo è che dello scempio fatto al suo corpo, della Passione e della Morte, la chiesa ha fatto un modello. Ancora oggi circola amenamente, come libretto per la formazione delle gioventù cristiane più radicali, un testo medioevale dal nome “l’Imitazione di Cristo” che è solo e soltanto un grande vademecum su come soffrire e morire nella migliore adesione al modello del cristo e dei martiri della chiesa.


Le chiese grondano di esempi più o meno ben riusciti di sofferenze inaudite. Individui che volontariamente si fanno torturare e muoiono per la glorificazione del cristo stesso. La morte autoinflitta per maggior gloria del cristo non era nemmeno una scelta possibile tra le molte praticabili ma, soprattutto nei primi secoli, l’unica accettabile se è vero che molti tra i padri della chiesa si domandavano come fare con coloro che, davanti alla scelta di morire o di abiurare la propria fede, avevano scelto la seconda. Costoro, che avevano deciso di salvare la santità delle propria vita piuttosto che concedersi alle amorevoli cure del boia, potevano tornare nella comunità e dirsi ancora cristiani? Inizialmente pare proprio che la risposta fosse no, salvo poi ammorbidire la propria posizione quando a scegliere per la vita cominciarono ad essere vescovi e prelati più alti con la scusa che la loro missione terrena ancora non era finita.
il martirio di san Sebastiano
L’estetica della morte violenta, del rifiuto alla vita, della scelta nella testimonianza fino in fondo, ha creato una vera e propria letteratura che passa sotto il nome di martirologio.
Il martire, che in greco vuol dire semplicemente il testimone, era e ancora è il vero cristiano.
Non sono cose di duemila anni fa, la chiesa sa sempre come rinverdire il proprio parco macchine con novelli testimoni che preferiscono la morte all’abiura di sé, dai missionari che si fanno uccidere in terre lontane alle figure come Santa Maria Goretti che preferisce la morte al cedere la propria castità il calendario si riempie e si gonfia.
Il corpo massacrato, il corpo afflitto, il corpo sanguinante, il corpo straziato e una costante iconografica, una figura onnipresente dell’esegesi religiosa del monoteismo (vale anche per altre religioni, ci mancherebbe, ce lo insegna il terrorismo di matrice islamica). Con l’avvento della comunicazione di massa una figura sopra tutte è diventata il segno di questo mercimonio della sofferenza a reti unificate per maggior gloria della santificazione: Giovanni Paolo II. Il corpo del vecchio papa veniva piacevolmente mostrato in tutte le sue esibizioni più personali di dolore, in tutte le sue mancanze date dalla malattia e dalla sofferenza. Anni fa una vecchia signora di mia conoscenza, molto cattolica, mi disse: “Peccato che non abbia anche le stigmate sarebbe stato così bello”
un esempio plastico di silenzio dignitoso di fronte alla morte   


La sofferenza, la morte, il dolore, sono modelli che attivano immediatamente la nostra curiosità umana, qualcosa di istintivo che risiede nel profondo delle nostre pulsioni ancestrali. È lo stesso meccanismo che ci fa rallentare in autostrada quando vediamo un’auto distrutta nell’altra corsia. Gli agiografi lo sanno e usano questi modelli a piene mani, ma il gioco funziona solo e soltanto se è la sola chiesa a usarli. Se lo usa pure qualcun altro, con fini diversi, allora no, allora non va bene, allora bisogna immediatamente sanzionare l’atto perché: “Pare assurdo e incredibile che si possa usare il proprio corpo come veicolo di una scelta politica, come esibizione al fine della ricerca di un cambiamento della legge”
Anche il signor Antoniani, e il signor Welbi e tutti gli altri prima durante e dopo sono dei martiri, dei testimoni, e la chiesa lo sa, ed è questo che non le va bene.
Il problema non sta nell’eutanasia, il problema non sta nell’aborto, il problema non sta in quello che diavolo fai del tuo corpo. L’importante, il VERAMENTE importante, è che tu lo faccia in silenzio e senza rompere le scatole al manovratore.
il martirio di Santa Maria Goretti
Vuoi morire? Senza fare tanto casino ti puoi mettere d’accordo in ospedale con un medico caritatevole e compiacente che non mancherà di applicare certi protocolli e scriverà sulla cartella clinica “arresto respiratorio”; “blocco renale” o qualunque altro dei possibili motivi che possono portare un uomo inchiodato ad un letto a morire. Il problema politico della gestione della vita e della morte è ben altra cosa. 

Sono decenni che la chiesa ha perso ogni dignità e possibilità per imporre il suo volere alle masse. Quello che non può tollerare è di non aver più nemmeno il diritto di veto sulle scelte politiche. Questo è il fatto davvero criminale. Qui siamo al paradosso. Un’organizzazione chiusa e ristretta (chi può dire di seguire i dettami della chiesa, chi non è in un certo qual modo nel mondo moderno in disaccordo sui precetti? Quanti sono i Veri credenti? Uno su un milione? E quanti di questi veri credenti nella vita fanno i medici obiettori uno su un miliardo?) che impone a una massa di persone che non abbracciano per nulla le loro idee le proprie regole di comportamento, regole che alla bisogna si possono aggirare, di nascosto, con calma e strategia.
Dico e scrivo da anni che mi piacerebbe poter vivere in un paese dove una persona come me possa avere la possibilità di essere Atea senza il peso di dover essere anche “anticlericale”. L’anticlericalismo mi pesa, lo trovo noioso, triviale e, a volte, inutilmente violento ma sono costretto a essere anticlericale dai fatti.
La chiesa è un gruppo ristretto, faccia rispettare i suoi precetti ai suoi accoliti: nessuno vuole obbligare una ragazza cattolica ad abortire un feto gravemente malformato, nessuno vuole obbligare un omosessuale cattolico a sposarsi e ad adottare figli, nessuno vuole obbligare un cattolico che si scoprisse malato di SLA a ricorrere a procedure di suicidio assistito.
Tutte queste persone hanno un’idea di vita che accoglie la sofferenza come parte integrante del Sé io personalmente non ci credo e non voglio che qualcuno mi imponga dei modelli di pensiero.

Il giorno in cui non sarò più libero di andare in montagna e di godere di colori della natura, il giorno che il mio stato psicofisico mi dovesse impedire di sedermi a scrivere un racconto, un romanza o questo brutto articoletto malfatto non avrò più interesse alla vita. Il giorno in cui percepirò negli occhi della donna che amo la pietà piuttosto che l’amore o nei figli che avrò la fatica a sopportare la mia sofferenza preferirò andarmene. Non credo in un aldilà e penso che quello che è l’uomo si faccia tutto in questa vita, che quello che si lascia in questo mondo sia la sola cosa che conti. Non credo nemmeno in un Dio ma se ci fosse e scoprissi che per lui quello che conta è la quantità di sofferenza che posso offrirgli non vorrei comunque avere a che fare con lui: di sadici è già pieno l’aldiquà non abbiamo bisogno anche di un sadico eterno e onnipotente.
    
L’estetica della morte, proposta dai cristiani è un trucco e come trucco va disvelato. L’estetica della sofferenza serve solo a far sì che il ricco non sia disturbato dal povero, il potente dall’impotente. L’etica della chiesa è un’etica di signori e regnanti e di pecore che vengono condotte dal pastore. Quest’etica della morte e della subornazione al potere non fa per me, non l’accetto come uomo e meno ancora l’accetto quando diventa causa della sofferenza dell’altro vicino a me, costretto come un servo al volere di un padrone che non si è cercato.
       

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