Sono le sette e ho già corso per più di un
chilometro, non sono abitato a prendere i mezzi pubblici, ho aspettato la
metropolitana sbagliata, poi era troppo tardi e me la sono dovuta fare a piedi,
di corsa, tra i parchi che dividono la stazione di San Leonardo dall’ex
capolinea della metropolitana a Molino Dorino.
Arrivo che l’autobus è quasi in partenza, è
il sette di agosto e ci sono solo quattro persone ad aspettare, i residuati
bellici dell’agosto cittadino, io, che finisco il turno in comunità e comincio
il mio lavoro giornaliero a correggere bozze, aggiornare pagine, cercare
contatti per i progetti; una ragazza dai tratti sudamericani, due uomini di colore
e un tizio egiziano che potrebbe avere venticinque come cinquant’anni. Vanno tutti
a lavoro, lo capisci subito dai sacchetti di carta che, chiaramente, contengono
il pranzo, dagli scarponi da lavoro, di quelli che ti cuociono il piede pure a
gennaio, figurati ad agosto. Lo capisci dal colore del sonno. Perché la
stanchezza ha un colore, anzi una gamma di colori, dal grigio delle pelle, al
viola delle occhiaie. Chi nella vita non ha fatto mai un turno di notte non lo
può capire. Per me è normale.
Io vado a lavorare quando arriva la notte e
per strada, sui mezzi, incontro la gente che torna stanca da lavoro, quelli che
hanno fatto lo straordinario in ufficio, con le giacche un po’ spiegazzate, i
colletti della camicia ingialliti, l’odore di essere umano che oltrepassa il
muro della seconda spruzzata di deodorante che ormai ha smesso di dare il
proprio contributo alla tua rispettabilità da troppo tempo.
E ritorno a casa quando la gente va a
lavorare, con un’altra stanchezza addosso, quella che ti si è attaccata
come una piattola appena hai messo i piedi fuori dal letto e che non vuole
andare via. Quella che, come certi batteri sono negli anni diventati resistenti
all’antibiotico, è diventata resistente al primo caffè della giornata, e a tu
sai che presto resisterà anche alla seconda dose.
Salgo sull’autobus in mezzo a tutta questa stanchezza
cercando di ignorare, già che ci sono, anche la mia. È arrivato il momento di
spegnere il me stesso educatore e di fare uscire il supereroe (o per meglio
dire, il mostro) che è in me. Educatore off, editore on.
Nella mia schizofrenia vado avanti così da
anni.
Estraggo dalla borsa il manoscritto del
giorno, niente di memorabile ma almeno ha il pregio di essere breve. Le opere
prime della maggioranza di quelli che mi scrivono sono lunghissime, gonfie di
inutili descrizioni, di spiegazioni del tutto inutili su cose che non hanno
nessuna necessità di essere spiegate. Ultimamente c’è pure chi fa il copia
incolla da wikipedia: uno strazio.
Prendo una penna e comincio a buttare qualche
notazione qua e là. Non è bruttissimo, ci si deve lavorare parecchio ma forse
può uscirne qualcosa.
Non mi accorgo della signora salita alla prima
fermata: “Posso sedermi qui?” chiede indicando il posto dove ho lasciato la mia
borsa. C’è un autobus completamente vuoto ma lei ha deciso di sedersi a fianco
a me, rifletto: credo sia colpa di Sara, se non mi avesse convinto a portare
sempre un deodorante al lavoro non sarebbe mai successo.
Annuisco con un sorriso e sposto la borsa
cercando di sembrare molto assorto e molto professionale. So già come andrà a
finire, spero solo che l’anziana si faccia furoviare dalla mi faccia
corrucciata e dallo sguardo attento. So già che non sarà così e infatti
puntualmente accade: “Sa, mi sono seduta vicino a lei perché si vede subito che
lei è italiano”
Adesso potrei cercare di farla fuggire
provando il mio falso accento albanese appreso in anni e anni di comunità ma so
che ormai sono fottuto, la bozza che ho davanti e l’agenda aperta sulle gambe
mi identificano subito.
“Legge?” mi domanda madame de Lapalisse
dopo essersi sistemata un po’.
“Ci provo, in realtà è lavoro urgente, una
cosa che devo consegnare per forza tra poche ore” hai capito l’antifona dolce
signora?
No, non la vuol capire: “Anche a me piaceva
molto leggere quando ero giovane, poi con l’età e la televisione, sa come si
dice? Troppe cose da fare”
Annuisco di nuovo. Si capisco, come capisco
che tra le mille cose che riempiono la vorticosa vita del pensionato medio ci
deve essere anche triturare lo scroto di uno che si maledice per non aver
ancora portato avanti quel progetto per confezionare magliette con la scritta
NON HO VOGLIA DI CONOSCERTI, LEVATI DAI COGLIONI.
“Menomale che ho trovato lei stamattina
sull’autobus, sa, io non lo prendo mai, mio marito dice che è pericoloso ma
devo andare a Legnano a trovare una mia amica che l’hanno operata all’anca e
sono stata costretta” ma nulla ti costringe a parlare con me, penso mentre
cerco di pensare all’amica così desiderosa di farsi affogare di chiacchiere. Io
sono l’antipasto, penso, sono il riscaldamento prima del vero incontro.
“Vede, siamo gli unici italiani, una donna
anziana come fa a sentirsi al sicuro?”
Desisto, magari se provo a farle capire che
non sono nemmeno un po’ d’accordo con lei mi lascia perdere: “Guardi,
onestamente qui io vedo solo persone che vanno a lavorare”
“Ma no guardi, lei si deve informare,
guardi il telegiornale, non lo sa che sugli autobus ormai è tutto un ammazzare
persone, ormai un italiano rischia la vita appena mette il naso fuori di casa”
Tu sicuramente, penso mentre vedo la vecchia scuotere la testa sconsolata.
“No, mi sono perso la notizia, io non ho la
TV a casa”
“Come no” La vecchia si fa incredula, per
la prima volta si sta facendo delle domande: forse si è seduta vicino a un
pazzo, italiano ma pazzo, saranno anche una minima parte ma qualcuno ce ne
sarà. Ora forse la pianta, penso. E invece no. Sapere che non ho la TV le ha
fatto credere di essere salita si un paio di gradini sulla scala evolutiva. Ora
si sente in dovere di spiegarmi cosa accade nel mondo. È ovvio, io sono un
poveraccio. Non so nulla di quanto accade in questo Paese e lei si sente in
dovere di mettermi in guardia, prima che io prenda un autobus di notte senza
scorta.
“Ci sono i profughi, sa? Sono in giro per
Milano tutto il giorno a fare niente perché così prendono 50 euro al giorno, e
poi vanno in giro nudi e violentano le ragazze nei parchi, adesso non ci va più
nessuno al parco” valuto la possibilità di metterla al corrente del fatto che i
parchi, soprattutto con questo caldo, sono pieni da scoppiare ma credo che sia
inutile e poi, ammetto, comincio a prenderci gusto in questo delirio.
“Sa che non avevo mai sentito parlare di
questi profughi, mi spieghi, chi sarebbero?”
La vecchia si impettisce, ha trovato un
povero ignorante: “Sono della gente che viene dall’Africa perché lì non hanno
voglia di lavorare, ma al loro paese il loro governo se non hai voglia di
lavorare non ti dà i soldi, invece in Italia il Renzi gli ha detto di venire e
gli dà i soldi e loro vengono”
Strabuzzo, la signora ha appena citato
Bello Figo senza saperlo e insiste: “Vanno in giro con i telefoni nuovi come
quello che ha lì lei, e noi non abbiamo i soldi per fare la spesa, e poi vanno
anche insieme alle ragazze italiane e ci fanno i figli”
No, ho sbagliato, questa vecchia non cita
Bello Figo, gli scrive i pezzi: “Ma non capisco, se vanno con le ragazze
italiane mica le rapiscono in casa, vorrà dire che loro sono contente” ribatto
io con la faccia di uno che è sceso adesso dalla Luna.
“No, guardi, su quello credo che è per la
droga”
“Domando nuovamente scusa ma non capisco”
lei mi guarda confusa, Diavolo la sto perdendo, se le do un’altra dose di
logica potrebbe morire qui sul posto, meglio farla scendere un po’.
“Ma quanti sono questi profughi in Italia?”
Domando
“Non lo so, ma dicono che ne arrivano
diecimila al giorno” risponde lei
“Tutti i giorni?”
Lei annuisce: “Qualche volta anche di più”
“Bhe certo, poi se c’è mare grosso anche
qualcuno in meno”
“Sì certo, è una probabilità” credo volesse
dire che è una media ma lascio perdere
“Quindi diecimila al giorno tutti i giorni?
E sono tutti in Italia?”
“Certo”
“Tremilioniseicentocinquantamila persone
all’anno che arrivano in Italia e ci restano a spese dello Stato?” mi mordo la
lingua, altra botta di logica, ora sviene.
E invece no, annuisce decisa, mi guarda e
mi dice: “A volte anche quattro milioni”
Ora sono io che sento che la testa mi gira,
guardo fuori dal finestrino, abbiamo superato Rho, tra pochi minuti sarà finita,
ora mi viene la scimmia della matematica, lo so che se mi sale è la fine ma non
ce la faccio a esimermi: “Ha detto che prendono 50 euro al giorno?”
“Si”
“In tre milioni e seicentocinquanta mila?”
“Si”
“E da quanti anni?”
“Da quando c’è Renzi, circa dieci anni”
Accidenti, vola il tempo.
“E sono tutti qui?”
“Certo, guardi, deve comprare una
televisione così lo vede anche lei”
“Cioè in Italia oltre ai sessanta milioni
di Italiani ci sono trentacinque milioni di Profughi che prendono 50 euro al
giorno?”
Lei seria e impettita: “Si”
Mi alzo, sta per arrivare la mia fermata,
guardo i miei poveri compagni di viaggio che non hanno sentito nulla della
conversazione precedente e stanno andando al lavoro cercando di togliersi di
dosso il colore della notte e della stanchezza.
Li guardo e penso che sullo stesso autobus
c’è una signora che ora, ha un po’ più di paura perché l’unico italiano sta
scendendo e che pensa che lo stato stia regalando a ciascuno di loro diciotto
mila euro l’anno, mentre loro vanno a lavoro come dei fessi il sette di agosto
e si alzano la mattina alle cinque.
Prendo il cellulare e apro la calcolatrice,
trenta milioni e mezzo di profughi per diciassettemila ottocento all’anno per
dieci anni. Faccio il conto ma la calcolatrice del telefono non ce la fa,
troppi zeri: 6,497E11. Lo sviluppo qui 6497000000000. Seimilaquattrocentonovatasette
miliardi di euro l’anno, pari al debito pubblico di Italia, Germani, Grecia,
Portogallo e Lussemburgo.
Ecco come si crea un mostro, la sintesi tra
ignoranza e totale travisamento dei numeri.
Scendo all’aria pura del mio piccolo paese,
tiro un sospiro di sollievo mentre mi auguro che la vecchia incontri il
senegalese della sua vita tra la torre di Nerviano e la statua di Alberto da
Giussano a Legnano.
Mentre cammino per la città desertificata
dalle partenze dei miei “poveri” concittadini mi torna in mente il bel
problemino che veniva consegnato ai bambini tedeschi durante il periodo nazista
“Il mantenimento
di un ammalato mentale costa circa 4 marchi al giorno, quello di uno storpio
5,5 marchi, quello di un criminale 3,50. Molti dipendenti statali ricevono solo
4 marchi al giorno, gli impiegati appena 3,5, i lavoratori manuali nemmeno 2
marchi al giorno. Illustrate queste cifre con un diagramma. Secondo stime
prudenti sono 300mila i malati mentali, epilettici, ecc. di cui si prende cura
lo Stato. Quanto costano in tutto queste persone a 4 marchi a testa? Quanti
prestiti matrimoniali a 1000 marchi l’uno potrebbero venir concessi sfruttando
questo denaro?".
Ma noi rispetto ai bambini nazisti abbiamo un
vantaggio. La signora probabilmente non saprebbe sviluppare questi calcoli.
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