Si erano dati il nome di “Sopravviventi metropolitani”. Loro
sapevano benissimo il perché.
Avevano cominciato da giovani, adesso erano ancora giovani e
fra loro girava voce che non sarebbero invecchiati tanto facilmente, anzi, per
la precisione, avevano deciso che il primo fra loro che fosse invecchiato
sarebbe stato espulso dal gruppo seduta stante. Lo sforzo titanico di restare
giovani corrodeva buona parte del loro tempo ma, grazie alla musa, gli artisti
non hanno alcun problema con l’orologio.
L’artista non è mai in ritardo, non è mai in anticipo. Il tempo
è nelle sue mani: l’artista arriva al momento giusto per interpretare un’epoca,
stravolgerla e crearne una nuova. Se arrivi troppo presto non sei un artista,
se arrivi troppo tardi al massimo puoi essere un artigiano.
Essere padroni del tempo era per loro più inebriante di
qualsivoglia droga, e quello che li inebriava ancor di più era l’assoluta
certezza che solo loro sapevano di esserne i padroni. Che senso ha avere un
dono così alto se tutti, anche i più miseri, lo possono capire?
I Sopravviventi
erano dei profeti, lo sapevano e sapevano che intorno a loro qualcuno lo
percepiva, ma non abbastanza.
Si riunivano nello scantinato di un bar nella periferia di
Milano, non che non potessero fare di meglio, avrebbero potuto scegliere
qualunque posto, ma avevano scelto di rifugiarsi in quella specie di bettola,
anzi sotto di essa, perché quei pochi che li potevano raggiungere avessero la
certezza della loro diversità. Inoltre la sotto si poteva fumare in pace,
nessuno cacava il cazzo. I sopravviventi non stavano alle regole. La
rivoluzione culturale era concentrata lì, in quei 20 metri quadrati che
puzzavano di Gitane senza filtro carta gialla e di sudore cerebrale.
Ognuno di loro aveva un arsenale sempre pronto, non sai mai
quando sarai chiamato alla battaglia. Una copia di: “lo spirituale nell’arte”
che quando lo citi fa tremare le palle anche a Gesù Cristo, due copie del loro
personale libro di poesie, scritto e autoprodotto rigorosamente in 100 copie. Una
rovinata e gualcita per i momenti in cui la vanità superava i limiti dell’umana
decenza e l’altra intonsa per i momenti in cui l’ego prendeva il sopravvento e
costringeva il fantoccio che il poeta era divenuto a dire: “il mio libro, ne ho
qui una copia, ma sa, ho solo questa. Non posso darla via”
No, gentile, non avrai il mio libro dietro al pagamento di
una somma di denaro, non sono una scimmia che balla. Il prezzo del mio libro è
la tua devozione, chiedimelo ancora e ancora… chiedimelo durante le serate di
lettura, chiedimelo dopo che sono sceso da palchetto del localino di Lambrate
ebbro di me. Non sono convinto che te lo concederò ma aumenterai le possibilità
che il miracolo avvenga.
Oltre a questo tesoro d’inchiostro nello zainetto da pirata
urbano c’era anche una agendina nera, mai farsi cogliere impreparato dall’estro.
Questa, vera reliquia di quel tabernacolo semovente, era custodita in una tasca
diversa. Perché le idee più vecchie non potessero contaminarla.
I passi del sopravvivente erano veloci nella giungla della
città:
Arida Milano,
matrigna e matrona.
Ti odio di un amore
immenso
Aveva scritto Leo, una volta. Leo, solo Leo. Anche i suoi
libri (due per un totale di 40 pagine) erano privi d’altro riferimento, Leo era
Leo. Chi lo conosceva sapeva. Una volta qualcuno lo aveva definito “il loro
caposcuola” lui si era immensamente offeso. L’unica scuola che Leo tollerava
era l’aridità della sua anima quando lo prendeva la tristezza oppure l’ebrezza
del suo estro.
Gli avevano chiesto di fare parte di un’antologia di poeti e
scrittori. Ma lui gli aveva riso in faccia. Lui non “prendeva parte”. Aveva risposto
con una frase che, a voler capirlo voleva dire tutto: Sono troppo umile per
essere lusingato e troppo presuntuoso per sentirmi all’altezza.
Avevano riso per tutta la sera di quella frase alla bettola.
Sapevano che quei parolai che lo avevano invitato non ci sarebbero arrivati
nemmeno dopo un milione di anni. Se li immaginavano lì, curvi davanti allo
schermo dei PC a fare la perifrasi di quel distico oscuro.
La sera dell’Apocalisse Leo si presentò alla bettola con un
grosso sacco di lino chiaro.
“Amici, cosa possiamo dare di più?” chiese al suo pubblico
Tutti si guardarono stupiti come in una nuova Ultima Cena. Cosa
avrebbero dovuto dare di più, davano già tutto. Erano arrivati così in là nel
dono di sé stessi che un passo oltre sarebbe stato come cercare di andare un
metro più a nord del polo nord. Avevano speso l’intera vita a dare un senso al
mondo in un modo così splendidamente ermetico che quel sacco chiuso sul tavolo
e quella domanda nell’aria sapeva di presa in giro. Se c’era una cosa che i Sopravviventi
non potevano sopportare era la derisione, loro avevano guadagnato il diritto
poetico a deridere ma essere derisi non era assolutamente nel loro stile. Tanto
valeva andare a leggere le loro poesie al primo che passava.
Leo li guardò come si guarda qualcuno che sta perdendo il
passo, Agostino, il più colto di loro, si sentì ferito, come se per la prima
volta uno di loro li stesse incasellando in una dimensione temporale un prima
dove risiedevano tutti loro e un dopo, dove stava solo Leo.
“Oggi ero in metropolitana e sono stato travolto dal Satori”
disse lui con una convinzione che trascendeva la normale realtà: “Le parole… le
parole sono logore… per quanto ci si sforzi di prendere una parola e trasformarla
in una farfalla ardente, dietro c’è sempre il bozzolo vuoto che ha contenuto il
verme”
Paolo annuì a occhi chiusi e Agostino, per non sentire di
restare ancora più indietro si sporse sul tavolo.
“Allora ho capito” continuava Leo: “Il poeta deve andare
oltre la parola. Deve aborrire la parola e trasformare la parola in gesto,
atroce e veritiero” Aprì la borsa con fare teatrale ed essa vomitò il suo
contenuto senza posa. C’era un coltellaccio da cucina, una corda da montagna,
un fermacarte, una bottiglia rotta.
Tutti guardarono gli oggetti sparsi sul tavolo, tutti
capirono o credettero di capire ma aspettarono che fosse Leo a parlare: “Compiremo
un gesto di sangue, qualcosa che non ha nulla a che fare con le parole,
compiremo un atto che trasformi il poeta in poesia stessa” Paolo annuì ancora.
Marcello che ancora non aveva fatto nulla si alzò di scatto
e prese il coltello di slancio, poi ci ripensò… era banale un coltello? Meglio il
coccio di bottiglia. Cazzo, ormai era fatta, sarebbe passato come quello più
banale dei quattro. Il sopravvivente banale, lo avrebbero ricordato così tra
mille anni. Gli altri, uno alla volta presero i loro oggetti lasciando a Leo
solo il fermacarte.
“Ora spengo la luce e sia fatta la volontà dell’arte” disse
alla fine.
E in un attimo fu buio e ci fu solo poesia.
Quando Leo riaccese la luce tutti si guardarono con fiero
sdegno negli occhi: “Il gesto è compiuto, il gesto è sacro” disse il poeta
trasfigurato: “Ora il coccio di bottiglia lo potete anche lasciare che tanto l’ho
trovato nella spazzatura, il fermacarte e il coltello però ridatemeli che sono
di mia madre e se non li ritrova domani si incazza come una bestia”
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