mercoledì 14 dicembre 2016

#ARTISMO #UNABRUTTAMALATTIA

Per promuovere il progetto https://www.musicraiser.com/it/projects/6653-rabbia-maneggiare-con-cura per undereground? mi è stato chiesto un piccolo contributo per sensibilizzare il popolo sul terribile problema dell'artismo giovanile.

ringrazio Quintin Tarantino per il supporto tecnico


domenica 11 dicembre 2016

I SOPRAVVIVENTI



Si erano dati il nome di “Sopravviventi metropolitani”. Loro sapevano benissimo il perché.
Avevano cominciato da giovani, adesso erano ancora giovani e fra loro girava voce che non sarebbero invecchiati tanto facilmente, anzi, per la precisione, avevano deciso che il primo fra loro che fosse invecchiato sarebbe stato espulso dal gruppo seduta stante. Lo sforzo titanico di restare giovani corrodeva buona parte del loro tempo ma, grazie alla musa, gli artisti non hanno alcun problema con l’orologio.
L’artista non è mai in ritardo, non è mai in anticipo. Il tempo è nelle sue mani: l’artista arriva al momento giusto per interpretare un’epoca, stravolgerla e crearne una nuova. Se arrivi troppo presto non sei un artista, se arrivi troppo tardi al massimo puoi essere un artigiano.
Essere padroni del tempo era per loro più inebriante di qualsivoglia droga, e quello che li inebriava ancor di più era l’assoluta certezza che solo loro sapevano di esserne i padroni. Che senso ha avere un dono così alto se tutti, anche i più miseri, lo possono capire?
I Sopravviventi erano dei profeti, lo sapevano e sapevano che intorno a loro qualcuno lo percepiva, ma non abbastanza.
Si riunivano nello scantinato di un bar nella periferia di Milano, non che non potessero fare di meglio, avrebbero potuto scegliere qualunque posto, ma avevano scelto di rifugiarsi in quella specie di bettola, anzi sotto di essa, perché quei pochi che li potevano raggiungere avessero la certezza della loro diversità. Inoltre la sotto si poteva fumare in pace, nessuno cacava il cazzo. I sopravviventi non stavano alle regole. La rivoluzione culturale era concentrata lì, in quei 20 metri quadrati che puzzavano di Gitane senza filtro carta gialla e di sudore cerebrale.
Ognuno di loro aveva un arsenale sempre pronto, non sai mai quando sarai chiamato alla battaglia. Una copia di: “lo spirituale nell’arte” che quando lo citi fa tremare le palle anche a Gesù Cristo, due copie del loro personale libro di poesie, scritto e autoprodotto rigorosamente in 100 copie. Una rovinata e gualcita per i momenti in cui la vanità superava i limiti dell’umana decenza e l’altra intonsa per i momenti in cui l’ego prendeva il sopravvento e costringeva il fantoccio che il poeta era divenuto a dire: “il mio libro, ne ho qui una copia, ma sa, ho solo questa. Non posso darla via”
No, gentile, non avrai il mio libro dietro al pagamento di una somma di denaro, non sono una scimmia che balla. Il prezzo del mio libro è la tua devozione, chiedimelo ancora e ancora… chiedimelo durante le serate di lettura, chiedimelo dopo che sono sceso da palchetto del localino di Lambrate ebbro di me. Non sono convinto che te lo concederò ma aumenterai le possibilità che il miracolo avvenga.
Oltre a questo tesoro d’inchiostro nello zainetto da pirata urbano c’era anche una agendina nera, mai farsi cogliere impreparato dall’estro. Questa, vera reliquia di quel tabernacolo semovente, era custodita in una tasca diversa. Perché le idee più vecchie non potessero contaminarla.
I passi del sopravvivente erano veloci nella giungla della città:

Arida Milano,
matrigna e matrona.
Ti odio di un amore immenso

Aveva scritto Leo, una volta. Leo, solo Leo. Anche i suoi libri (due per un totale di 40 pagine) erano privi d’altro riferimento, Leo era Leo. Chi lo conosceva sapeva. Una volta qualcuno lo aveva definito “il loro caposcuola” lui si era immensamente offeso. L’unica scuola che Leo tollerava era l’aridità della sua anima quando lo prendeva la tristezza oppure l’ebrezza del suo estro.
Gli avevano chiesto di fare parte di un’antologia di poeti e scrittori. Ma lui gli aveva riso in faccia. Lui non “prendeva parte”. Aveva risposto con una frase che, a voler capirlo voleva dire tutto: Sono troppo umile per essere lusingato e troppo presuntuoso per sentirmi all’altezza.
Avevano riso per tutta la sera di quella frase alla bettola. Sapevano che quei parolai che lo avevano invitato non ci sarebbero arrivati nemmeno dopo un milione di anni. Se li immaginavano lì, curvi davanti allo schermo dei PC a fare la perifrasi di quel distico oscuro.
   
La sera dell’Apocalisse Leo si presentò alla bettola con un grosso sacco di lino chiaro.
“Amici, cosa possiamo dare di più?” chiese al suo pubblico
Tutti si guardarono stupiti come in una nuova Ultima Cena. Cosa avrebbero dovuto dare di più, davano già tutto. Erano arrivati così in là nel dono di sé stessi che un passo oltre sarebbe stato come cercare di andare un metro più a nord del polo nord. Avevano speso l’intera vita a dare un senso al mondo in un modo così splendidamente ermetico che quel sacco chiuso sul tavolo e quella domanda nell’aria sapeva di presa in giro. Se c’era una cosa che i Sopravviventi non potevano sopportare era la derisione, loro avevano guadagnato il diritto poetico a deridere ma essere derisi non era assolutamente nel loro stile. Tanto valeva andare a leggere le loro poesie al primo che passava.
Leo li guardò come si guarda qualcuno che sta perdendo il passo, Agostino, il più colto di loro, si sentì ferito, come se per la prima volta uno di loro li stesse incasellando in una dimensione temporale un prima dove risiedevano tutti loro e un dopo, dove stava solo Leo.
“Oggi ero in metropolitana e sono stato travolto dal Satori” disse lui con una convinzione che trascendeva la normale realtà: “Le parole… le parole sono logore… per quanto ci si sforzi di prendere una parola e trasformarla in una farfalla ardente, dietro c’è sempre il bozzolo vuoto che ha contenuto il verme”
Paolo annuì a occhi chiusi e Agostino, per non sentire di restare ancora più indietro si sporse sul tavolo.
“Allora ho capito” continuava Leo: “Il poeta deve andare oltre la parola. Deve aborrire la parola e trasformare la parola in gesto, atroce e veritiero” Aprì la borsa con fare teatrale ed essa vomitò il suo contenuto senza posa. C’era un coltellaccio da cucina, una corda da montagna, un fermacarte, una bottiglia rotta.
Tutti guardarono gli oggetti sparsi sul tavolo, tutti capirono o credettero di capire ma aspettarono che fosse Leo a parlare: “Compiremo un gesto di sangue, qualcosa che non ha nulla a che fare con le parole, compiremo un atto che trasformi il poeta in poesia stessa” Paolo annuì ancora.
Marcello che ancora non aveva fatto nulla si alzò di scatto e prese il coltello di slancio, poi ci ripensò… era banale un coltello? Meglio il coccio di bottiglia. Cazzo, ormai era fatta, sarebbe passato come quello più banale dei quattro. Il sopravvivente banale, lo avrebbero ricordato così tra mille anni. Gli altri, uno alla volta presero i loro oggetti lasciando a Leo solo il fermacarte.
“Ora spengo la luce e sia fatta la volontà dell’arte” disse alla fine.
E in un attimo fu buio e ci fu solo poesia.


Quando Leo riaccese la luce tutti si guardarono con fiero sdegno negli occhi: “Il gesto è compiuto, il gesto è sacro” disse il poeta trasfigurato: “Ora il coccio di bottiglia lo potete anche lasciare che tanto l’ho trovato nella spazzatura, il fermacarte e il coltello però ridatemeli che sono di mia madre e se non li ritrova domani si incazza come una bestia”

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giovedì 17 novembre 2016

UN MOTIVO COME UN ALTRO



Scena 1
La vecchia al Centro osserva il nulla squallido del giardino pensile del primo piano, una bella distesa di terriccio da riporto ed erba seminata male e cresciuta a chiazze, piante striminzite e una cornice di cemento armato.
L’infermiera sudamericana ha una gran fretta. La vecchia lo intuisce. Ieri gli ha detto che ha una figlia di quattordici anni e che preferisce il turno di notte così di giorno può stare a casa a controllare che vada a scuola piuttosto di appartarsi in camera con qualche maschio da cui si fa levare le mutandine per un passaggio al cinema e un paio di bicchierini il sabato pomeriggio.
L’infermiera ha fretta ma vuole scambiare ancora qualche parola, nonostante quella tristezza tetra e deforme di vecchia le riesce simpatica. Le mette le pillole nel bicchiere e poi si siede sulla seggiola di plastica colorata e le parla. Chiede se oggi ha intenzione di fare due passi con gli altri, c’è il mercato. La vecchia scuote la testa, l’infermiera le fa una carezza. Le dita ossute della vecchia scivolano nel bicchiere e prendono ad una ad una le pillole. Quella azzurra, quella bianca, ad una ad una si affidano alla lingua secca e impastata.
L’infermiera dice che è arrivato il momento del cambio turno. Le dà appuntamento a domani, corre verso lo spogliatoio con il bicchierino di plastica tra le mani.
In tutto un minuto e quarantacinque secondi.

Scena 2
Il parco giochi è immerso nella luce del pomeriggio. La primavera sta facendo il suo e le ossa cominciano a reagire come si deve.
L’uomo con il cappello non ama quel tipo di cambio di stagione, tra non molto dovrà abbandonare gli abiti invernali, in cui si trova fin troppo bene, per indossare quei ridicoli vestiti estivi che sembrano inventati per toglierti la dignità.
Guarda mamma, quel signore con il cappello giallo, hai visto che braccia secche che ha? Hai visto che pelle bianca che ha.
Tanto varrebbe andare in giro con un cartello con la scritta: lezione di anatomia numero 1 “la decomposizione della carne umana”.
L’uomo con il cappello si ricorda gli anni in cui quel parco non era un dedalo di giochi nuovissimi e di bimbi urlanti, una volta era solo un grosso fazzoletto di erba che divideva la fermata dell’autobus dall’ingresso della metalmeccanica.
Almeno la metalmeccanica era morta prima che potesse vedere che cosa era diventato il suo parco.
Non amava i bambini, se li avesse amati avrebbe avuto a disposizione non meno di 4 nipoti da portare in giro e da soddisfare con caramelle e altre amenità. Il figlio più grande era una specie di cecchino dell’utero, aveva ingravidato la moglie una volta ogni anno e mezzo per sei anni di fila, se lo Stato fosse stato meno egoista avrebbe dovuto sterilizzarlo al secondo pargolo. Ma nulla, meglio puntare sulla famiglia numerosa. Che cazzo ci faremo mai con tutti questi bambini? Sono ingiusto, pensò mentre osservava i gruppi di bimbi e di mamme sorveglianti che si appollaiavano apprensive nelle panchine intorno.
Apri il giornale: Liberal, in prima pagina i musulmani “sono una minaccia”, terza pagina “gli zingari” sono un pericolo, poi il governo “è la causa dei musulmani e degli zingari” e non pensavano ai vecchi come lui che soffrono e non arrivano alle fine del mese. Ci mancava anche il governo a dovere pensare a lui, quanti occhi doveva avere addosso?
Scena 3
Stesso parco stesso vecchio, stesso giornale che ora parla della sua Milano, non è evidente a tutti che ormai il degrado supera ogni limite? Non è evidente che comandano i centri sociali? Non è evidente che una povera donna non si sente più sicura nemmeno a uscire di casa?
L’uomo col cappello guarda il parco immerso nel sole di fine aprile e si risponde: no, non dovrebbe avere paura, non c’è nulla di evidente.
La ragazza con la faccia da angelo arriva quasi all’improvviso, gli si accosta da sinistra, ha appena lasciato il suo pargolo con altri bambini nelle mani di quella che di sicuro è l’amica del cuore.
“Salve, anche oggi qui” dice cordiale al vecchio che abbassa istintivamente il giornale e sorride con fare bonario.
“Salve”
“Continua a dire che i bambini non fanno per lei ma poi viene sempre al parco”
“I bambini non fanno per me ma l’aria aperta fa un gran bene alle ossa, non mi piace restare in casa di pomeriggio”
“Fa bene, sa, mio padre invece da quando è in pensione si è attaccato al divano”
L’uomo annuisce, con un gesto cortese fa cenno di sedersi, ama le conversazioni casuali, ama anche le donne, o meglio, le ha amate molti anni prima.
“Perché non ci porta mai i suoi nipotini qui? Sono sicura che a loro piacerebbe”
Lui sorride senza dare una risposta, lei capisce di avere sconfinato.
“Ieri parlavo di lei a mio marito, mi ha detto che noi mamme dobbiamo avere cura anche di lei, che in questo periodo un ve… un anziano… da solo è in pericolo tanto quanto un bambino”
Altro sorriso: “E allora che venga suo marito a difendermi, anzi a difendere tutti noi” faccia spaventata
Lei ride, poi guarda le punte delle scarpe: “Lui lavora, non avrebbe tempo” poi si riprende: “ma non voglio che pensi male, vuole un bene dell’anima a noi due, se potesse, con dei ritmi più umani, sarebbe molto più presente”
“Immagino, senza meno”
“E’ questa città, tutto questo caos, mio marito dice che sembra che Milano si porti sulle spalle tutta l’Italia: gli altri alla moviola e noi a correre”
“Io amo Milano, e non ho mai corso in vita mia, anzi” sorride alla giovane mamma
“Lui vuole un altro figlio” dice lei piano: “Io non so se me la sento, ma lui dice che almeno ne facciamo due vicini che crescono assieme” guarda il bambino che gioca con gli altri, sembra divertirsi tanto, ha appena spinto un altro bambino a faccia in giù sul selciato, lui ride, l’altro bambino piange disperato, la giovane mamma con la faccia angelica scatta in piedi e urla il nome del figlio poi corre verso di lui e lo rimprovera, lo minaccia che alla prossima si va a casa. L’uomo sa che è una bugia, non saranno le marachelle del bambino a farli filare a casa tra poco.
Torna da lui: “A volte sembra fuori controllo, scatta così e fa queste cose. Forse sono io, non sono abbastanza severa” La vena del collo pulsa, sta cercando di mantenere la calma: “Ma se poi non sono io? Se poi viene fuori che ha un disordine della personalità? L’altro giorno al nido è venuta una psicologa a parlare, sembra che le facciano venire per farci paura, ha detto che i disordini di personalità hanno un esordio sempre più precoce e che è facile confonderli con tratti peculiari del carattere, magari io penso che è solo vivace e lui poi ha un problema e io non sono stata capace di vederlo”
L’uomo ascolta e annuisce, come deve fare un vecchio al parco, una specie di cassonetto della spazzatura dell’anima. Si parla tanto di raccolta differenziata, lui è il cassonetto dell’umido, raccoglie tutte le certezze in decomposizione, le angosce maturate sulla mensola della cucina e che ormai non sono più buone, le paure lasciate nel contenitore per alimenti nel frigorifero che hanno generato nugoli di batteri e muffe…
La ragazza con la faccia da angelo si protende con il busto in avanti, dalla scollatura della camicia si vede fin troppo bene il generoso seno, lei si accorge ma richiude il bottone con lentezza: “Una volta avrei chiesto scusa, ma dopo che per mesi tutti mi hanno guardato le tette senza pudore mentre allattavo ci ho perso l’abitudine, alla fine sono solo ghiandole mammarie” sorride.
“Verrà qui anche domani?”
“Credo di no, mercoledì e venerdì vado a fare visita ai miei amici” la ragazza capisce di che parla anche per via di quello sguardo rassegnato… invecchierà anche lei, e perderà anche la sua bellezza angelica, non sarà più nulla, pensa, anche lei farà il giro dei cimiteri, per trovare i vecchi amici e aspetterà di essere dall’altra parte della lapide.
“Allora ne prendo per oggi e per domani, anche per la mia amica” dice senza guardarlo
Estrae dalla tasca dei pantaloni due banconote da 50. E le mette nelle pagine del giornale chiuso che divide lei dall’uomo con le sue montagne di odio e rabbia su carta stampata.
L’uomo estrae un piccolo porta caramelle in metallo dalla tasca. La ragazza lo prende e lo apre.
“Nicolas, vieni Nicolas, guarda cosa ti regala il signore, dì grazie”
Il bambino arriva trotterellando al richiamo delle caramelle.
“Una sola però” dice l’uomo col cappello: “poi il resto lo tiene la mamma” il bambino annuisce e prende una caramella gommosa dal mucchio lasciando nella scatola le quattro pastiglie di Seroxan e le due di Prozac, per l’amica che intanto si prende amorevole cura dei pargoli al parco giochi.
La ragazza con il volto da angelo fa cenno alla brunetta bruttina e sovrappeso che anche per oggi ci sono e che possono cominciare a levare le tende da quel paradiso di metallo e plastica color prato inglese.
Ora le due hanno un motivo per alzarsi domani mattina.

Scena 4
L’infermiera sudamericana è contenta di quel signore con il cappello che viene sempre a trovare la sua paziente speciale. Tutti i mercoledì e venerdì fa tappa fissa alla casa di riposo.
Non ci mette tanto tempo, solo un quarto d’ora poi riprende il cappello e il cappotto e saluta, poco tempo che però fa molto bene alla sua paziente che in quei giorni è molto più contenta e affabile.
Quel giorno l’infermiera si accorge di un particolare non insolito e lo rincorre.
Lo raggiunge prima che l’ascensore si apra al piano e gli permetta la fuga: “Signore, signore” lui si gira distratto e osserva la scatoletta di caramelle tra le mani dell’infermiera.
“Anche lei non ci si metta per favore, la signora ha il diabete, ho visto che apriva la scatolina prima, una caramella va bene, ma non faccia il cattivo non pensi che non mi accorgo che gliele lascia lì di proposito”
Il vecchio col cappello fa la faccia contrita: “Chiedo scusa signora, non capiterà più”
Nell’ascensore apre il suo astuccio di caramelle, la sua amica ha fatto il suo dovere, nel week end manderà qualcuno a portarle i soldi. Tocca appena le pillole con la punta delle dita e ringrazia il cielo che la lingua dei vecchi sia così secca.

      

mercoledì 16 novembre 2016

UN DISCRETO SCRUTARE





Lo osservava da tanto tempo.
Era cominciata per gioco, almeno così le sembrava di ricordare. Non sono certo quelle cose che uno pianifica.
Un po’ come quando cammini per la strada e sei travolto da un’auto. Poi magari si dice la solita frase: “Un po’ me lo sentivo”, ma si sa che non è vero.
Aveva cominciato ad osservarlo, all’inizio quasi stupita. Niente di eccezionale, niente di notevole. Solo un vecchio che passava le sue giornate nell’appartamento dirimpetto al suo. Al quarto piano di una palazzina anonima, di una strada anonima.
Non si era mai nemmeno preoccupata di attraversare la strada per andare a sbirciare i citofoni e capire come si chiamasse. La sua immaginazione aveva supplito alla mancanza di un nome. Ogni mattina, quando cominciava la sua osservazione lo poteva chiamare in modo diverso. “Buongiorno signor Mambretti”
Oggi si chiamava Mambretti, Ovidio Mambretti.

All’inizio le sedute d’appostamento erano piuttosto brevi, addirittura casuali. Non voleva ammettere con se stessa che stava nascendo in lei una specie di ossessione per quel vecchio gracile con la pelle giallastra e l’appetito di un uccellino che aveva nidificato davanti a casa sua.
Col passare del tempo però le cose erano cambiate: aveva dato un metodo alle sue osservazioni. Si posizionava alla finestra della camera da letto, quella che dava la miglior visuale, sin dalle prime ore della mattina. Se all’inizio lo osservava per non più di mezz’ora al giorno, col passare del tempo era arrivata a seguirne le mosse per quattro o cinque ore, nel week end anche per sei.
Non aveva ancora avuto la presunzione di fare delle ipotesi sul motivo della sua ossessione. Aveva organizzato la sua vita intorno a suo vecchio signore. Osservare, lavorare, tornare ad osservare, avere una vita sociale, tornare ad osservare, bere, mangiare, scopare e farsi scopare, tornare ad osservare. Da un po’ si era accorta che la sua occupazione stava prendendo il sopravvento su molte piccole occupazioni secondarie. Osservare il signor “Costantini” non era più una occupazione della giornata, era l’occupazione.
A volte si stupiva semplicemente delle stereotipie del vecchio, osservava un movimento, cercava di prevedere tutti i successivi. Se ci azzeccava si complimentava con se stessa diversamente si perdeva in congetture sui motivi per i quali la serie delle azioni ripetute si era interrotta.
Altre volte, e nell’ultimo periodo accadeva con sempre maggior frequenza, le sue fantasie prendevano il sopravvento. Si immaginava seduta nella sua casa modesta, sentiva l’odore di mobili vecchi e di cibi mal cucinati, pensava di diventare parte del suo mondo, alla stregua di un soprammobile. Una cosa presente ma ignorata. Avrebbe voluto stare nella casa come una presenza nota, avrebbe voluto che lui sapesse di lei, che sentisse del disagio a sapere che qualcosa lo osservava con tanta cura e meticolosa precisione, ma che contemporaneamente fosse invisibile ai suoi occhi, scontata, come una vecchia gondola in plastica dorata buttata sulla mensola di un mobile della sala.
Di notte era anche peggio, quando le finestre erano nere e non c’era nulla da osservare le veniva in mente che il gioco, come tutti i giochi, sarebbe durato poco. Più prima che poi le imposte la mattina non si sarebbero aperte, oppure le luci a notte fonda sarebbero state ancora accese. Lo avrebbero portato via con l’ambulanza, magari sarebbero arrivati dei parenti, dei figli. L’imperturbabile routine dei giorni sempre identici sarebbe finita, non ci sarebbero stati più pronostici, vaticini.
E allora pensava che non era assolutamente giusto che questo accadesse al di fuori del suo controllo, al di fuori delle sue previsioni.
Era solo questione di tempo, sapeva che prima o poi sarebbe suonato un campanello nella sua testa e lo avrebbe fatto. Doveva controllarlo fino alla fine. Fino all’ultimo.
Quando la fecero sedere sul sedile di dietro dell’auto era pienamente soddisfatta.
Lui aveva aperto la porta a quella signora che aveva già visto diverse volte oltre i vetri della casa di fronte. Come previsto l’aveva fatta entrare. Come previsto le aveva voltato le spalle. Come previsto il suo collo si era spezzato come un pezzo di legno secco.
Tutto come previsto. Era davvero diventata molto brava. 
  
dicembre 2015